La malattia di Parkinson è un disturbo del movimento piuttosto diffuso in Italia (i malati in Italia sono circa 250.000), ed è caratterizzata dalla degenerazione dei neuroni di una zona del cervello nota come Sostanza Nera, che non è più in grado di produrre dopamina. La carenza di dopamina è la causa dei sintomi cardinali della malattia:
bradicinesia (lentezza nel movimento), tremore e rigidità. L’incidenza della malattia aumenta con l’età, essendo più elevata sopra i 60 anni e fortunatamente rara prima dei 40 anni.
Il trattamento della malattia di Parkinson consiste nella terapia dopaminergica, ovvero nella somministrazione della sostanza dopamina, di cui è carente l’organismo, esattamente come avviene in caso di carenza di ormoni tiroidei, o in menopausa quando si fa la terapia sostitutiva.
Non si può somministrare direttamente dopamina, perché la sostanza non può arrivare direttamente al cervello, occorre somministrare il precursore, cioè il levodopa, oppure farmaci noti come dopaminoantagonisti, in grado di stimolare i recettori dopaminenergetici residui nella produzione e nell’utilizzo della dopamina.
Dalla sua introduzione negli anni Sessanta, levadopa è rimasta come il farmaco di riferimento per la sua efficacia, tuttavia il suo beneficio è gravato dalla perdita di efficacia nel tempo, nonché di effetti indesiderati di rilievo come le complicanze motorie. Questi fattori ne limitano l’utilizzo, inducendo spesso il neurologo a fermare la prescrizione e costringere il paziente a sopportare la malattia stoicamente.
La ricerca farmacologica di questi anni ha evidenziato che la propensione di levodopa alla sviluppo di complicanze motorie è verosimilmente riconducibile alla stimolazione pulsatile del recettore dopaminergico. La terapia di dipominoantagonisti consente di ottenere un controllo soddisfacente della sintomatologia motoria.
Puoi votare l'articolo anche qui, gli articoli precedenti qui.